Trascrizione del podcast
Eliana: Benvenuta e benvenuto al quinto podcast del “DALLA LEADERHIP ALLA RELAZIONE INFLUENZANTE” di Logosme, io sono Eliana Pellegrini e con me Marta Trevisan. Ciao Marta e benvenuta anche a te.
Lo so che succede anche a te. Ti succede che se ascolterai ancora solo un’altra persona che dice “sono empatica”, “vorrei avere un leader più empatico”, “ciò che manca in azienda è l’empatia” la tua faccia si trasforma come quella dell’urlo” di Munch?
A parte le facili provocazioni, il numero di pubblicazioni e affermazioni che riguardano l’empatia è davvero alto, e negli ultimi anni c’è stato un aumento esponenziale. Ne parlano psicologi, neuroscienziati, ma anche politici (Obama, per esempio), giornalisti di quotidiani, speaker radiofonici e una infinità di post che troviamo quotidianamente sui social; se cerchiamo “empatia” su Amazon troviamo più di 200 libri scritti in italiano che trattano il tema dai più diversi punti di vista (auto aiuto, infanzia, marketing, leadership…). La teoria che accomuna tutti è che il male del nostro tempo è la mancanza di empatia, che l’aumento dell’empatia aiuterà i genitori ad essere educatori migliori, i venditori ad aumentare il fatturato e i leader ad avere più seguaci. E, in genere, a costruire un mondo migliore.
Marta – Empatia, nella sua definizione più condivisa, significa “stare nei panni dell’altro”. Se seguiamo l’etimologia, il termine indica il “sentire la sofferenza altrui”. Brenè Brown nel 2013 è riuscita a spiegare il concetto in modo molto potente con un video diventato ormai famoso.
Quindi, secondo il mood degli ultimi anni, il leader migliore è quello che riesce a mettersi nei panni dei suoi collaboratori, e magari anche dei sui pari e dei suoi superiori.
Sì, ma io sento che c’è qualcosa che stride. In che modo l’empatia può rendere un leader più efficace e influenzante?
Nella mia mente si creano due immagini. La prima è, per esempio, quella di un manager che sente profondamente nel suo cuore l’entusiasmo del collaboratore che è stato inserito all’interno di un progetto con obiettivi sfidanti. Gioire della stesa gioia dell’altra persona, con ogni probabilità avrà un’influenza positiva sul collaboratore, rinforzerà l’energia che già sta sprigionando.
L’altra immagine è quella del leader che sente profondamente dentro di sé la paura e l’ansia del collaboratore dell’essere ingaggiato dentro un progetto con obiettivi sfidanti. Se io fossi quel collaboratore, non mi sarebbe di aiuto avere a fianco una persona che naviga nella mia stessa ansia. A quel punto non si tratta di un leader influenzante, ma influenzato!
Per il mio bene, quello del team, e dell’organizzazione ho bisogno non tanto di una persona che si tuffa nei miei stati emotivi (sia piacevoli che spiacevoli), ma di un leader che ascolta e comprende, che è in grado di tenerne conto e di offrirmi stimoli per progredire verso uno stato emotivo più funzionale ai risultati che vogliamo raggiungere insieme.
Assomiglia a quello che Hoffman chiama empatia cognitiva e motivazionale.
Esatto, la distinzione che propone lo psicologo americano è interessante. Parla di empatia affettiva, cognitiva e motivazionale. Il primo tipo fa riferimento alla capacità di vivere gli stati emotivi dell’altro, “sentire quello che l’altra persona sente”; per empatia cognitiva si intende il comprendere le ragioni dell’altra persona, il capire cosa le stia succedendo assumendone la prospettiva (perspective taking); l’empatia motivazionale fa riferimento alla spinta all’azione d’aiuto che può muovere dal sentire la sofferenza dell’altro.
Lo psicologo canadese Paul Bloom nel suo libro intitolato “Contro l’empatia” parla di quanto possa essere pericoloso seguire ciecamente l’empatia affettiva, perché porta a dei potenti bias decisionali. Se siamo troppo immersi nel sentire degli altri, tendiamo ad assecondare il desiderio di una persona a cui vogliamo bene (o nella quale ci immedesimiamo) anche se, nel lungo periodo, la realizzazione di quel bisogno avrà delle conseguenze negative per la persona stessa o per la comunità.
Faccio un esempio semplice: Paola si sente frustrata perché svolge delle mansioni che non le piacciono e risulta, nella relazione con i colleghi, tranciante e poco collaborativa; se, in qualità di sua responsabile, mi immergessi completamente nella sua frustrazione e nel fastidio che prova, potrei prendere la decisione di spostarla immediatamente dal suo incarico senza fare altri tipi di valutazioni. Potrei sovrastimare le sue capacità e affidarle un ruolo che non è in grado di presidiare; oppure perdo la visione d’insieme e non tengo in considerazione gli effetti che questo cambiamento potrebbe sortire sul clima psicologico fra i membri del team. In questo modo, dunque, anziché essere di supporto a Paola, provoco un danno a lei e all’organizzazione.
Bloom invita, più che all’esercizio dell’empatia incondizionata, all’esercizio della compassione, che si basa sull’ascolto attivo, sulla comprensione delle emozioni e dei punti di vista altrui e, in ultimo, consente un certo distacco affettivo, funzionale ad una presa di decisioni migliore. Dal mio punto di vista, affinché una persona diventi un leader influenzante non dovrebbe occuparsi solo ed esclusivamente della sua empatia. Ho l’impressione che questa iper-focalizzazione sull’empatia faccia sentire diverse persone inadatte, quando, in realtà, la capacità di comprensione e di ascolto attivo che hanno è più che adeguata al ruolo che agiscono.
Spesso con il termine empatia si intende, nel suo complesso, intelligenza emotiva. Ma, l’empatia è solo una delle competenze per essere intelligenti emotivamente. Più che sviluppare l’empatia, nelle aziende è necessario migliorare l’intelligenza emotiva delle persone, cioè la loro capacità di integrare la parte razionale e quella emozionale per avere relazioni migliori, prendere decisioni valide anche a lungo termine e raggiungere obiettivi che portino prosperità a sé e agli altri.
Secondo alcune ricerche condotte da Six Seconds, le performance delle persone in azienda sono fortemente correlate con alcune delle competenze che compongono l’intelligenza emotiva, in particolare: saper motivarsi, perseguire obiettivi eccellenti e saper trovare alternative ai problemi che si possono incontrare.
Come vedi, in queste ricerche non viene citata l’empatia (per quanto sia una componente molto importante dell’intelligenza emotiva). Lo stesso dato ritorna in altra ricerca sulla leadership condotta dal Korn Ferry Institute: i top manager intervistati possedevano un livello di empatia adeguato, ma non eccellente!
In conclusione, quindi, per poter agire un ruolo di leader influenzante, coerente con i nuovi paradigmi organizzativi, ha più senso per le funzioni di people management focalizzare la propria attenzione sull’intera intelligenza emotiva e non solo sull’empatia!
Grazie, Marta. E grazie a te per averci ascoltate. Se vuoi approfondire, scrivici le tue domande, saremo felici di risponderti. Nel prossimo podcast parleremo di leadership al femminile. Arrivederci al prossimo podcast da Marta Trevisan ed Eliana Pellegrini.
Seguiteci sui social e visitate il sito www.logosme.it.
Alla prossima puntata.
- PARTE 1
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Eliana: Benvenuta e benvenuto al quinto podcast del “DALLA LEADERHIP ALLA RELAZIONE INFLUENZANTE” di Logosme, io sono Eliana Pellegrini e con me Marta Trevisan. Ciao Marta e benvenuta anche a te.
Lo so che succede anche a te. Ti succede che se ascolterai ancora solo un’altra persona che dice “sono empatica”, “vorrei avere un leader più empatico”, “ciò che manca in azienda è l’empatia” la tua faccia si trasforma come quella dell’urlo” di Munch?
A parte le facili provocazioni, il numero di pubblicazioni e affermazioni che riguardano l’empatia è davvero alto, e negli ultimi anni c’è stato un aumento esponenziale. Ne parlano psicologi, neuroscienziati, ma anche politici (Obama, per esempio), giornalisti di quotidiani, speaker radiofonici e una infinità di post che troviamo quotidianamente sui social; se cerchiamo “empatia” su Amazon troviamo più di 200 libri scritti in italiano che trattano il tema dai più diversi punti di vista (auto aiuto, infanzia, marketing, leadership…). La teoria che accomuna tutti è che il male del nostro tempo è la mancanza di empatia, che l’aumento dell’empatia aiuterà i genitori ad essere educatori migliori, i venditori ad aumentare il fatturato e i leader ad avere più seguaci. E, in genere, a costruire un mondo migliore.
Marta – Empatia, nella sua definizione più condivisa, significa “stare nei panni dell’altro”. Se seguiamo l’etimologia, il termine indica il “sentire la sofferenza altrui”. Brenè Brown nel 2013 è riuscita a spiegare il concetto in modo molto potente con un video diventato ormai famoso.
Quindi, secondo il mood degli ultimi anni, il leader migliore è quello che riesce a mettersi nei panni dei suoi collaboratori, e magari anche dei sui pari e dei suoi superiori.
Sì, ma io sento che c’è qualcosa che stride. In che modo l’empatia può rendere un leader più efficace e influenzante?
- PARTE 2
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Nella mia mente si creano due immagini. La prima è, per esempio, quella di un manager che sente profondamente nel suo cuore l’entusiasmo del collaboratore che è stato inserito all’interno di un progetto con obiettivi sfidanti. Gioire della stesa gioia dell’altra persona, con ogni probabilità avrà un’influenza positiva sul collaboratore, rinforzerà l’energia che già sta sprigionando.
L’altra immagine è quella del leader che sente profondamente dentro di sé la paura e l’ansia del collaboratore dell’essere ingaggiato dentro un progetto con obiettivi sfidanti. Se io fossi quel collaboratore, non mi sarebbe di aiuto avere a fianco una persona che naviga nella mia stessa ansia. A quel punto non si tratta di un leader influenzante, ma influenzato!
Per il mio bene, quello del team, e dell’organizzazione ho bisogno non tanto di una persona che si tuffa nei miei stati emotivi (sia piacevoli che spiacevoli), ma di un leader che ascolta e comprende, che è in grado di tenerne conto e di offrirmi stimoli per progredire verso uno stato emotivo più funzionale ai risultati che vogliamo raggiungere insieme.
Assomiglia a quello che Hoffman chiama empatia cognitiva e motivazionale.
Esatto, la distinzione che propone lo psicologo americano è interessante. Parla di empatia affettiva, cognitiva e motivazionale. Il primo tipo fa riferimento alla capacità di vivere gli stati emotivi dell’altro, “sentire quello che l’altra persona sente”; per empatia cognitiva si intende il comprendere le ragioni dell’altra persona, il capire cosa le stia succedendo assumendone la prospettiva (perspective taking); l’empatia motivazionale fa riferimento alla spinta all’azione d’aiuto che può muovere dal sentire la sofferenza dell’altro.
Lo psicologo canadese Paul Bloom nel suo libro intitolato “Contro l’empatia” parla di quanto possa essere pericoloso seguire ciecamente l’empatia affettiva, perché porta a dei potenti bias decisionali. Se siamo troppo immersi nel sentire degli altri, tendiamo ad assecondare il desiderio di una persona a cui vogliamo bene (o nella quale ci immedesimiamo) anche se, nel lungo periodo, la realizzazione di quel bisogno avrà delle conseguenze negative per la persona stessa o per la comunità.
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Faccio un esempio semplice: Paola si sente frustrata perché svolge delle mansioni che non le piacciono e risulta, nella relazione con i colleghi, tranciante e poco collaborativa; se, in qualità di sua responsabile, mi immergessi completamente nella sua frustrazione e nel fastidio che prova, potrei prendere la decisione di spostarla immediatamente dal suo incarico senza fare altri tipi di valutazioni. Potrei sovrastimare le sue capacità e affidarle un ruolo che non è in grado di presidiare; oppure perdo la visione d’insieme e non tengo in considerazione gli effetti che questo cambiamento potrebbe sortire sul clima psicologico fra i membri del team. In questo modo, dunque, anziché essere di supporto a Paola, provoco un danno a lei e all’organizzazione.
Bloom invita, più che all’esercizio dell’empatia incondizionata, all’esercizio della compassione, che si basa sull’ascolto attivo, sulla comprensione delle emozioni e dei punti di vista altrui e, in ultimo, consente un certo distacco affettivo, funzionale ad una presa di decisioni migliore. Dal mio punto di vista, affinché una persona diventi un leader influenzante non dovrebbe occuparsi solo ed esclusivamente della sua empatia. Ho l’impressione che questa iper-focalizzazione sull’empatia faccia sentire diverse persone inadatte, quando, in realtà, la capacità di comprensione e di ascolto attivo che hanno è più che adeguata al ruolo che agiscono.
Spesso con il termine empatia si intende, nel suo complesso, intelligenza emotiva. Ma, l’empatia è solo una delle competenze per essere intelligenti emotivamente. Più che sviluppare l’empatia, nelle aziende è necessario migliorare l’intelligenza emotiva delle persone, cioè la loro capacità di integrare la parte razionale e quella emozionale per avere relazioni migliori, prendere decisioni valide anche a lungo termine e raggiungere obiettivi che portino prosperità a sé e agli altri.
Secondo alcune ricerche condotte da Six Seconds, le performance delle persone in azienda sono fortemente correlate con alcune delle competenze che compongono l’intelligenza emotiva, in particolare: saper motivarsi, perseguire obiettivi eccellenti e saper trovare alternative ai problemi che si possono incontrare.
Come vedi, in queste ricerche non viene citata l’empatia (per quanto sia una componente molto importante dell’intelligenza emotiva). Lo stesso dato ritorna in altra ricerca sulla leadership condotta dal Korn Ferry Institute: i top manager intervistati possedevano un livello di empatia adeguato, ma non eccellente!
In conclusione, quindi, per poter agire un ruolo di leader influenzante, coerente con i nuovi paradigmi organizzativi, ha più senso per le funzioni di people management focalizzare la propria attenzione sull’intera intelligenza emotiva e non solo sull’empatia!
Grazie, Marta. E grazie a te per averci ascoltate. Se vuoi approfondire, scrivici le tue domande, saremo felici di risponderti. Nel prossimo podcast parleremo di leadership al femminile. Arrivederci al prossimo podcast da Marta Trevisan ed Eliana Pellegrini.
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Alla prossima puntata.
Chi siamo
La Dott.ssa Eliana Pellegrini è psicologa iscritta all’albo degli psicologi dell’Emilia Romagna, psicoterapeuta ad orientamento cognitivo-comportamentale, formatrice e senior HR consultant.
La Dott.ssa Marta Trevisan è psicologa del Lavoro (Albo degli Psicologi dell’Emilia Romagna) e coach associata ad ICF (International Coach Federation).